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Il cantastorie

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L’hanno sorpreso in una piazza mentre strimpellando con una vecchia chitarra raccontava storie strane di gente costretta in catene; gente che il menestrello additava segnandola con una lunga verga su dei grandi cartelloni.

E non mi pare che si discostino tanto dalla realtà ora che li sto osservando prima che gli infermieri li raccolgano per de­positarli in fardelleria, non appena ultimate le operazioni di ri­covero.

“Come ti chiami?”, gli domando prendendo il registro dove vengono annotati assieme alle complete generalità del ri­coverando altri elementi che servano a configurare in una ca­sella patologica la nuova immagine che egli da questo momen­to assumerà.

“Pasquale Meniconi del fu Antonio e del fu Tavernina Maria, nato a Sichilano il 28/12/1917”.

“Professione?” «Cantastorie». “Titolo di studio?” «Li­cenza liceale». “E poi?”

«Poi mi diedero un moschetto e quando avrei voluto ri­prendere il libro si accorsero che il cervello l’avevo smarrito nelle steppe russe o sulle sabbie infuocate dell’Africa».

«E così sei rimasto senza libro e senza moschetto».

«Come tanti della mia generazione ai quali il governo, o meglio la Patria ha dato in premio una misera pensione».

Assolti gli adempimenti di rito e mandato il ricoverato al reparto, qualche ora dopo avvertivo uno squillo di telefono. Il capo-reparto mi comunicava che il nuovo ammesso si era ribellato e quindi chiedeva l’autorizzazione per assicurarlo al letto e praticargli un sedativo. In serata giro per i padiglioni: ho vo­luto vedere il cantastorie che stava disteso supino sul letto, con i polsi assicurati da due fasce di tela legate alle sbarre longitu­dinali della branda e le estremità inferiori spinte verso il piede del letto per mezzo di un lenzuolo fatto a corda, con un capo che gli costringeva i malleoli, mentre l’altro veniva annodato diverse volte alla sbarra traversa della branda. In fondo alla corsia un tizio confabulava, rideva beatamente, mentre un al­tro ricoverato che si era alzato da poco ispezionava il pavimen­to in cerca di mozziconi di sigarette con poca fortuna perché altri prima di lui avevano operato il “repulisti”.

Intanto da un finestrone irrompeva improvvisa sul letto del cantastorie un’ondata di luce bianca, fredda.

Ho immaginato che fosse la luna perché quel lembo di lu­ce intersecata dalle inferriate e proiettata a scacchi era estrema­mente mobile: una luna che nella ‘prima notte’ teneva a batte­simo il menestrello conferendogli la scorbutica qualifica di lu­natico…

Dal fondo una voce si informa dell’ora.

Nessuno risponde.

Le lancette corrono sui quadranti del tempo quasi spinte dalla legge d’inerzia ed il malato vive ormai al di fuori dello spazio e dell’ora, per nulla interessato alla lunghezza d’ombra di clessidre antiche o moderne.

Gli occhi del nuovo arrivato, sotto l’azione del medicina­le, si imbambolano; a volte sembra che vogliano sezionare il soffitto, un rude lenzuolo sul quale si stampano visioni di cose lontane ed oltre il quale si volatilizzano desideri, sogni, speran­ze di gente che viene e va.

Sento ancora la sua voce… «Grazie della fiala, dottore!».

Il cantastorie non ha più i lineamenti contratti, ma le membra appaiono irrigidite, statuarie.

Le sue pupille si agitano trafitte da lame di luce che spio­vono dall’alto.

“Com’è bello!… Ogni letto è una gabbia d’oro e tutto intorno una immensa distesa di verde macchiata di giallo, di rosso…”.

Il delirio ha ora mille punte: un delirio che il cantastorie vorrebbe dominare, ma dal quale finisce per essere sopraffat­to, sommerso.

“Che spettacolo!!! Il tetto… non il tetto… un ciclo di tur­chese … Quanti fiori… Oh!… Una farfalla… bella… variopin­ta, luminosa”.

Si agita dapprima ansioso, poi felice…

“Ecco l’ho presa”.

La stringeva adagio nel cavo della mano, adagio per non farle male.

“Già il soffitto… Non è il cielo…”.

Apre il palmo della mano, soffia dolcemente, come per spingere a volare la farfalla del suo delirio.

“È andata via verso il sole, verso l’azzurro, verso l’infi­nito”.

Pare che il cantastorie sia tornato in sé perché il volto tra­duce una amara delusione. Poi il delirio lo riprende e come la farfalla della sua prima notte di follia anche la fantasia spazia nei cicli dove ogni stella ha un nome ed ogni mondo uno scena­rio popolato di personaggi. Personaggi e tipi, una volta reali, ora sembrano avvolti dal giallo alone dell’allucinazione sull’a­la della quale l’idea delirante del cantastorie continua ad innal­zarsi nell’aria, s’inarca, poi assume i contorni di una vela che solca l’onda di un mare libero senza confini e senza catene.

In attesa dell’alba.